Allenare il cervello per gestire il deficit di attenzione

Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) è caratterizzato da difficoltà di concentrazione, aumento della distraibilità, impulsività e iperattività. Gli scienziati dell’Università di Ginevra (UNIGE) e degli Ospedali universitari di Ginevra (HUG), hanno valutato la possibilità di usare una tecnica, il “neurofeedback”, per allenare l’attenzione dei pazienti con ADHD. I risultati della ricerca sono stati pubblicati dalla rivista Clinical Neurophysiology.


“Il disturbo si sviluppa durante l’infanzia e in alcuni casi persiste nell’età adulta, portando il paziente ad avere problemi nel funzionamento relazionale e socio-professionale, e rendendo più facile il ricorso all’alcol o alle droghe”, spiega Marie-Pierre Deiber, ricercatrice del Dipartimento di Psichiatria presso la Facoltà di Medicina dell’UNIGE. Oggi, l’ADHD viene trattato con farmaci che aumentano la concentrazione di dopamina, migliorando l’attenzione del paziente. Poiché il disturbo è spesso accompagnato da depressione, ansia o persino disturbi bipolari, il trattamento è generalmente combinato con la psicoterapia. “Tuttavia, i trattamenti farmaceutici possono essere accompagnati da effetti collaterali significativi, come nervosismo, disturbi del sonno, ma anche un aumento del rischio di sviluppare altri disturbi psichiatrici o malattie cardiovascolari”, osserva Roland Hasler, ricercatore della HUG Division of Psychiatric Specialties. “Per questo abbiamo voluto indagare su un trattamento completamente non farmacologico e non invasivo basato sul principio del ‘neurofeedback'”.


Il neurofeedback è un tipo di intervento neurocognitivo nel quale i pazienti visualizzano in tempo reale, sul monitor di un computer, la propria attività elettroencefalografica. Lo scopo del training è di insegnare al paziente come percepire specifici stati di attivazione corticale e in che modo raggiungere tali stati volontariamente.


In questo caso i ricercatori hanno usato 64 sensori per produrre l’elettroencefalogramma (EEG) dei pazienti. Hanno concentrato le loro analisi sulle onde alfa (frequenza intorno ai 10 Herz). Il computer ha accoppiato la fluttuazione e l’ampiezza delle onde a un videogioco che i pazienti potevano controllare con l’attenzione. L’EEG era collegato a un computer che mostrava l’immagine di uno space shuttle. Quando il paziente era concentrato, lo space shuttle avanzava, non appena il paziente si distraeva il movimento della navetta spaziale veniva interrotto. Di fronte all’arresto della navetta spaziale, il paziente si rendeva conto di aver perso l’attenzione e si concentrava per far ripartire la navetta.


Per misurare gli effetti del neurofeedback, il team di Ginevra ha proposto, a 25 adulti con ADHD e a 22 adulti neurotipici, un test che valutava l’attenzione. Al basale, i pazienti con ADHD hanno commesso più errori e hanno avuto un tempo di reazione più variabile rispetto ai partecipanti di controllo. Dopo 30 minuti di neurofeedback, i partecipanti hanno ripetuto il test.


“La prima scoperta è stata che il rilevamento dello stimolo e la variabilità della risposta sono stati migliorati, indicando un miglioramento dell’attenzione”, afferma Marie-Pierre Deiber. “Ma ciò che ci interessava di più era l’impatto dell’allenamento neurofeedback sul componente P3 [un’onda ERP (potenziale evento-correlato) elicitata da stimoli rilevanti ] che in precedenza ha dimostrato di essere ridotta nell’ADHD e direttamente collegata all’elaborazione neurocognitiva dello stimolo”. Maggiore è l’ampiezza dell componente P3, più efficiente è l’elaborazione dello stimolo e più accurata è la risposta al compito di attenzione. L’ampiezza della P3 è aumentata significativamente dopo l’allenamento con neurofeedback ed è stata direttamente associata a una riduzione del numero di errori commessi dai pazienti.


Questo studio mostra che una singola sessione di neurofeedback di 30 minuti può indurre plasticità a breve termine nel cervello e incoraggiare miglioramenti dell’attenzione nei pazienti con ADHD. In secondo luogo, supporta l’esistenza di un marcatore elettrofisiologico dell’elaborazione dell’attenzione nell’ADHD. “La P3 potrebbe essere una firma cerebrale che ci consente di comprendere meglio i meccanismi neurocognitivi dell’ADHD”, osserva Nader Perroud, professore presso il Dipartimento di Psichiatria della Facoltà di Medicina dell’UNIGE e presso la Divisione di specialità psichiatriche HUG.


Gli scienziati prevedono di effettuare un trattamento di neurofeedback basato su più sessioni di allenamento, al fine di osservare se la plasticità del cervello si rafforza nel tempo. 


Fonte: Clin Neurophysiol. 2021

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